La questione del potere e della gerarchia è trasversale nell’attivismo della Casa delle Streghe. Se è vero che la Casa si distingue dalla Scuola di Stregheria proprio perché quest’ultima è un essere collegiale e il più possibile paritario mentre per la Casa decido io, è anche vero che ciò che scelgo come spazio di movimento della Casa cerca comunque rispettare certi principi su cui rifletto da tempo e li ho già raccontati abbondantemente nel sito, in particolare proprio il tema della comunità. Questo post su IG (quello dell'immagine sopra) però mi dà l’occasione di tornare su una questione centrale di tutto il mio e nostro lavoro: la consapevolezza delle cornici gerarchiche in cui si muove il nostro pensiero, di quanto la parola riflette quel modo di pensare, di quanto questo limiti le nostre possibilità di espressione e condivisione e di quanto tutto ciò si riverbera in ogni nostro spazio di azione ed anche di emozione. Qualche esempio: la certezza di aver capito alla prima quello che l’altra persona voleva dire e le sue intenzioni, la non abitudine a chiedere conferma, il dare per scontato ciò che si deve o non si deve fare nelle relazioni, le regole, la necessità di provare di avere ragione, il monogamismo, il monoteismo, ogni cosa che è mono e non pluri, rientra in quel modo di pensare. Anche se stai “seguendo” un percorso, una maestra, una chiesa, invito a riflettere su quanto sia pesante tutto il non detto sul potere che esercita chi “guida” e anche chi no, come il classico cerchio magico che supporta la maestra. Ok, c’è chi paga e chi viene pagata, chi chiede un servizio e chi lo offre, ma questo è comunità? E’ il luogo della guarigione che cercavano le tarantolate? E’ lo spazio dionisiaco libero dallo sguardo di chi è più brava e chi meno brava? Chi già più ne sa e chi meno? Ci sono un sacco di gerarchie che diamo per scontate e magari alcune ci sembrano (e per certi versi possono essere) anche giuste: chi ha iniziato prima, chi ne sa di più, chi è più vecchia, chi è nel gruppo da più tempo, chi si dà più da fare, chi ha messo più soldi, chi ci mette più tempo, chi ha organizzato l’evento, chi conosce la zona, chi è amica della maestra, chi ha il tamburo, chi è più simpatica, chi guida l’auto, chi ha portato il vino. Sono proprio questi aspetti banali e che ci sembrano naturali quelli che ci fregano meglio, sono quelli che non ci rendono comunità, non permettono spazi di parola e azione paritari e liberi dal giudizio e quindi rendono quegli spazi solo momenti in cui tecnicamente impariamo pratiche e l’effetto che ci fanno, ma senza lo sguardo e lo specchio paritario dell’altra donna, una donna che conosco, con cui ho una relazione profonda, con cui mi metto in gioco su tanti piani diversi, che rivedrò e sentirò con le altre del cerchio anche indipendentemente dalla maestra, c’è un bel pezzo di roba che resta dov’è. A questo riguardo devo dire che ci sono anche luoghi in cui la maestra, oltre a proporre e guidare le pratiche, lascia ampio spazio alla condivisione paritaria in gruppi che iniziano e finiscono insieme un percorso e in cui si creano relazioni trasversali significative. Un esempio è la Danza sulla Soglia di Sofie della Vanth di cui un nuovo gruppo sta ripartendo in questi giorni. Negli ambienti di attivismo quando si vuole parlare di togliersi di dosso questa roba va un sacco di moda la parola “decolonizzare” ma alla fine la questione va ben oltre il colonialismo come lo intendiamo di solito, come viene ben descritto in questo post di @decolonizing.love che mi fa piacere tradurre qui perché pur concentrandosi sulla relazione permette di allargare lo sguardo: “Il pensiero gerarchico è così ubiquitario che la maggior parte delle persone nemmeno si rendono conto della sua esistenza e così lo normalizzano rendendolo il modo naturale di relazionarsi. Quando si pensa alla colonizzazione, solitamente si considera la terra, le risorse e la razza. Eppure anche le nostre menti e relazioni sono luoghi di colonizzazione. Il valore culturale sostenuto dalla colonizzazione Europea e l’eredità dell’imperialismo cristiano comprende la monogamia, la famiglia nucleare, l’eteronormatività, il pensiero gerarchico, la demolizione della comunità e BDSM. Se considerate da sole, alcune di queste potrebbero sembrare innocue, ma come norme sociali perpetuano la cultura del sistema. La cultura della colonizzazione si preoccupa di mantenere il dominio perché vede la vita come un gioco a somma zero condizionando le persone a normalizzare relazioni che sono isolate, incentrate sullo scambio e sulla lotta per il potere. Il contrario della cultura della colonizzazione è una società ugualitaria in cui il pensiero gerarchico e la costrizione al dominio vengono sostituite dai valori di comunità, interconnessione, equità, altruismo, liberazione e il raggiungimento della libertà per tutte.” Altri esempi interessanti portati nelle immagini del post richiamano quanto sia gerarchico l’antropocentrismo delle immagini sacre, la differenza fra democrazia diretta e rappresentativa, la gerarchia lavorativa, la proprietà parentale, l’utilizzo degli altri animali e dell’ambiente. Non spaventiamoci parlando di potere, che lo vediamo o no c’è e dà forma a tutte le nostre relazioni e quello che sono le nostre relazioni, alla fine, siamo noi. Mitakuye Oyasin
0 Comments
Si può certamente raccontare con nuove parole, corpi e suoni e, anzi, vorrei vederne mille, ma ultimamente ne ho vista una che mi ha particolarmente delusa. I motivi sono vari: intanto ci sono elementi filologici di base che andrebbero rispettati fra cui il fatto che nelle rappresentazioni delle Baccanti non sono gli uomini ma le donne che guidano la danza che porta alla trance con tamburi a cornice con o senza cimbali. Non sono poi danze coreograficamente definite, ma coinvolgono chi le guarda in un movimento estatico prolungata in uno spazio più simile ad un rave che ai due minuti di danza di gruppo che via via ci sono stati concessi. Inoltre le baccanti non credo invitino nessuno a danzare con loro perché sono coscienti del pericolo. Ciò che temo di questo tipo di rivisitazioni è la semplificazione e l’addomesticamento. Le Baccanti non sono qualcosa di cui non avere paura: il re, Penteo figlio di Agave va sulla montagna vestito da donna perché sa cosa rischia se venisse scoperto e infatti alla fine vedremo sua madre scendere dalla montagna con la sua testa sulla picca.
Quello che invece spesso viene raccontato, o in cui il pubblico viene coinvolto, come è capitato a me, è una versione addomesticata del mito e dalla tragedia creando tutta la distanza che c’è fra un rave non autorizzato e una serata in un night club anni ‘80. Il movimento dionisiaco è lo stesso dei tarantolati, dei pride, la sublimazione del disagio, della difficoltà, del dolore, di tutto ciò che sfugge alla comprensione, di ciò che trova pace solo nell’idea collettiva di mistero da vivere insieme con tutti i rischi che comporta. Nelle versioni che ho visto ultimamente, invece, non c’è nulla di tutto ciò che finisce per restare ad un livello superficiale che disinnesca la portata sconvolgente e rivoluzionaria del mito e della sua pratica che potrebbe invece scuotere le fondamenta convenzioni, visioni e modi di pensare sé e la società. Si normalizza il racconto come se tutte e tutti potessero farne parte senza conseguenze, compreso lo sguardo di Atteone. Nel racconto originiario Atteone, il cacciatore, sorprende Atena e le Ninfe che l’accompagnano mentre si bagnano in un fiume. Per vendetta Atena lo trasforma in cervo e lo fa sbranare dai suoi stessi cani. Questo è ciò che le donne fanno, o vorrebbero fare, se importunate dagli uomini, e sicuramente non ha niente a che fare con due giovani donne pressoché nude che si dilettano di movimenti e gorgheggi seduttivi a ritmi tribali creati da uomini che stanno lì a guardarle. Lo sguardo di chi le sorprende non trova nulla di diverso da ciò che si vede usualmente in tv o su Internet e lo spezzarsi di ossa che contraddistngue il destino di Atteone non è vissuto da chi assiste nemmeno lontanamente o in senso metaforico dallo specchiarsi in pezzi stranianti e in movimento che riporta comunque all’ego e non al rispetto di ciò che è sacro: il desiderio altrui. Sempre riguardo alla questione maschile/femminile, nonostante il corteo delle Baccanti dovesse essere disordinato e dissacrante, gli unici che davano spazio a ciò che non trova ascolto e luogo di legittimazione erano maschi, le donne restano sempre e comunque solo seducenti. Non c’era nessuna forma di distruttività e aggressività, se non a livello puramente estetico, cosa che invece caratterizza esattamente le Baccanti che fanno a pezzi gli animali e le persone a mani nude. Tutto ciò che c’è di mostruoso nello donne e nelle Baccanti nel rendere visibile l’ingiustizia e la violenza insita nell’ordine sociale, viene disinnescato e normalizzato. Questo è ciò che io ho vissuto e rivendico il mio sguardo come quello dell’oppressa che chiede di essere creduta come fanno le donne nere o con disabilità rispetto a chi invece prende la parola e le racconta storie che non sono le proprie in modo funzionale al mantenimento del sistema oppressivo in cui ha privilegi. Al di là dell’intrattenimento, questo tipo di racconto non fa che ridurre l’interesse verso il mito anche di chi potrebbe avvicinarcisi e trovarvi conforto e ispirazione perché si limita a far fruire di un oggetto culturale banale e poco incisivo che con le Baccanti non ha nulla a che fare se non la rabbia delle parole dell'unica donna a cui è stato permesso di parlare, naturalmente in modo che non fosse comprensibile. La Casa delle Streghe con la Scuola di stregheria porterà un ben più spaventoso racconto di Penelope alla Pea Conference a Merano dal 6 al 8 settembre. Così ne riparliamo per benino. |
News
Chi scrive quiAnnalisa Biancardi De Luca Battaglia. Sempre in cerca di ciò che è autentico, fra boschi, vette, valli, foreste, cuori e musei... Archivi
Dicembre 2024
|